http://www.corriere.it/esteri/11_giugno_15/cremonesi-intervista-figlio-gheddafi_d373b458-9791-11e0-83e2-2963559124a0.shtml
Saif Gheddafi : «Subito elezioni
E' l'unico modo indolore per uscirne»
Il figlio del Rais: «Ricucire con l'Italia? No, finchè ci sarà Berlusconi, lui e Frattini ci hanno tradito»
LORENZO CREMONESI
15 giugno 2011
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 Usciamo dal tunnel delle accuse reciproche. Lei sostiene che i  ribelli vanno perseguitati come traditori. E loro replicano che tutta la  vostra famiglia va processata, al meglio espulsa all’estero. La Nato  sta dalla loro parte, godono di un crescente sostegno internazionale.  Gheddafi è sempre più isolato, deve andarsene. Dove il compromesso?
«Elezioni.  Si potrebbero tenere entro tre mesi. Al massimo a fine anno. E la  garanzia della loro trasparenza potrebbe essere la presenza di  osservatori internazionali. Non ci formalizziamo su quali. Accettiamo  l’Unione Europea, l’Unione Africana, l’Onu, la stessa Nato. L’importante  è che lo scrutinio sia pulito, non ci siano sospetti di brogli. E  allora tutto il mondo scoprirà quanto Gheddafi è ancora popolare nel suo  Paese. Non ho alcun dubbio: la stragrande maggioranza dei libici sta  con mio padre e vede i ribelli come fanatici integralisti islamici,  terroristi sobillati dall’estero, mercenari agli ordini di Sarkozi. Alla  nostra gente non sfugge che lo stesso presidente del governo fantoccio a  Bengasi, Mustafa Abdel Jalil, come del resto il loro responsabile  militare, Abdel Fatah Younes, sono, al pari di tanti altri, uomini della  vecchia nomenclatura, gente che è saltata sul carro delle rivolte  all’ultimo minuto, miserabili profittatori, venduti. Erano ministri con  Gheddafi e ora vogliono giocare la parte dei leader contro di lui.  Ridicoli. Non li temiamo affatto. Sono fantocci di Parigi. Marionette  incapaci di stare in piedi da sole». 
 I ribelli temono di essere assassinati, perseguitati, come del resto è  avvenuto in 42 anni di dittatura a tanti membri dell’opposizione. Cosa  offre per garantire la loro incolumità?
«Sono loro che hanno  paura, non noi. Li conosco bene, uno a uno, sono stati con me nelle  università straniere. Hanno goduto del mio programma di liberalizzazione  negli ultimi dieci anni, di cui, si badi bene, non mi pento affatto. Il  nostro rapporto è come quello tra il serpente e il topo che vorrebbero  convivere nella stessa tana. Ci considerano il serpente. La soluzione?  Dobbiamo essere tutti eguali: tutti serpenti, o tutti topi. E la via è  quella delle urne». 
 Ma come li garantisce?
«Occorre pensarci. Dovremo cercare di  mettere in piedi un meccanismo per garantirli. Nel periodo prima del  voto si dovrà comunque elaborare la nuova costituzione e un sistema di  media completamente libero. Credo in una Libia del futuro composta da  forti autonomie locali e un debole governo federale a Tripoli. Il  modello potrebbero essere gli Stati Uniti, la Nuova Zelanda o  l’Australia. In questi ultimi mesi ho maturato una convinzione profonda:  la Libia pre-17 febbraio non esiste più. Qualsiasi cosa accada, inclusa  la sconfitta militare o politica dei ribelli, non si potrà tornare  indietro. Il regime di mio padre così come si è sviluppato dal 1969 è  morto e sepolto. Gheddafi è stato superato dagli avvenimenti, ma così  anche Jalil. Occorre costruire qualche cosa di completamente nuovo». 
 E se le elezioni le vincono i dirigenti di Bengasi? 
«Bravi.  Tanto di cappello. Noi ci faremo da parte. Sono però certo della nostra  vittoria. Sui poco più di cinque milioni di libici, almeno i due milioni  residenti a Tripoli stanno con noi e anche a Bengasi godiamo della  maggioranza. Semplicemente laggiù la gente non può parlare per paura di  rappresaglie. Comunque, se dovessimo perdere, ovvio che lasceremo il  governo. Rispettiamo le regole. Non mi opporrei neppure se venisse  democraticamente eletto nostro premier l’intellettuale ebreo-francese  Bernard-Henri Levy» (sorride per la battuta). 
 La pensa così anche suo padre dopo 42 anni di regime? 
«Certo». 
 E, in quel caso, Gheddafi sarebbe pronto all’esilio?
«No. Non  c’è motivo. Perché mai? Questo è il nostro Paese. Mio padre continua a  ripeterlo. Non se ne andrà mai dalla Libia. Qui è nato e qui intende  morire ed essere sepolto, accanto ai suoi cari». 
 A quel punto non sareste però voi a rischio di vendette? Andrete a cercare protezione tra qualche tribù fedele nel deserto? 
«Staremo a Tripoli, a casa nostra. Nessuno di noi scappa. Sappiamo come difenderci». 
«Non ora. Non sino a quando ci sarà Berlusconi al governo. Da quello che possiamo capire qui a Tripoli, il vostro premier è in difficoltà, pare inevitabile la sua prossima sconfitta elettorale. Bene. Non possiamo che gioirne. Lui e il ministro degli Esteri Frattini si sono comportati in modo abominevole con noi. Sino a tre mesi prima lo scoppio della ribellione venivano a inchinarsi e baciavano le mani a Gheddafi. Salvo poi voltare la schiena e passare armi e bagagli tra le file dei nostri nemici alla prima difficoltà. Vergogna!».
 Che sarà dei contratti con l’Eni? Italia e Libia hanno una lunga  storia di rapporti economici che va ben oltre i governi Berlusconi. 
«Ovvio,  e infatti separiamo nettamente la figura di Berlusconi dall’Italia.  Apprezziamo le critiche alla guerra e contro la Nato avanzate dalle  Lega. Guardiamo con interesse ai vostri partiti della sinistra. La Libia  terrà un atteggiamento assolutamente diverso nei confronti di un’Italia  senza Berlusconi». 
 E il petrolio? 
«Non so. E’ prematuro parlarne. Per ora  dobbiamo porre fine alla guerra, imporre la legge e l’ordine in tutto il  Paese. Ma voglio essere franco. Da tempo Mosca guarda con interesse ai  pozzi e alle infrastrutture Eni in Libia. Forse, ora i russi hanno una  carta in più». 
 Pure, anche Mosca ultimamente ha perorato la causa dell’esilio di Gheddafi. Non la penalizzate? 
«Lo so. Ma con Berlusconi è diverso. Si diceva vero amico di Gheddafi. Il suo tradimento brucia di più». 
 E allora, quale tra i governi stranieri potrebbe meglio aiutare la  transizione verso il voto in Libia e nel contempo mediare con la Nato? 
»La  Francia. Abbiamo già avuto abboccamenti con Parigi, ma per ora senza  seguito. Comunque, sono loro che impongono la politica del governo di  Bengasi. E’ stato Sarkozy a volere più di tutti l’intervento Nato.  Dunque a loro il compito di cercare una via d’uscita il meno cruenta  possibile». 
 
 
 
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