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«Italia, serve la bancarotta»
Per Latouche, guru della decrescita, il debito non sarà mai ripagato: meglio ripartire da zero.
GIOVANNA FAGGIONATO
Intervista a Serge Latouche
A sinistra c'è il cafè Le metro, a destra il Ronsard.
Uno di fronte all'altro, con la stessa veranda affacciata sul viale e lo
spazio interno percorso dalla luce dei paralumi e dai riflessi degli
specchi. In mezzo scorre Boulevard Saint Germain: 30 metri di asfalto
antracite, bollente e polveroso, la colonna vertebrale della rive gauche
parigina.
«Una volta, i giornalisti li ricevevo dall'altra parte: il
proprietario del caffè abita al primo piano, proprio sotto il mio
appartamento, peccato che mia moglie ci abbia litigato». Il teorico
della decrescita, Serge Latouche, si presenta al tavolino del Ronsard con un affare di condominio e la fatica di attraversare la strada.
A dispetto delle lunghe gambe e dello sguardo da marinaio,
l'economista 72enne sembra desideroso di restringere il mondo. Anche
quello che lo circonda, fatto di caffé dove si dibatte di politica e
flilosofia, da cui sono passati sia Adam Smith sia Karl Marx.
LA NECESSITÀ DI UNA DECRESCITA. Latouche ha cominciato a parlare di
globalizzazione
quando la parola non era nemmeno nei dizionari, ma da poco era stato
pubblicato il rapporto dell'associazione non governativa Club di Roma
sui limiti dello sviluppo e la fine del petrolio.
Ha riletto i liberali classici e il padre del comunismo e ne
ha
concluso che né il capitalismo concorrenziale teorizzato dai primi, né
l'economicismo statalista di Marx sarebbero stati capaci di dar vita a
una società in equilibrio con l'ecosistema.
Entrambi, anzi, avrebbero portato al collasso.
Così ha messo in
discussione il concetto di sviluppo come progresso, teorizzando la
necessità di un dopo-sviluppo, della decrescita: l'uscita dal dominio dell'economia e una rifondazione culturale, fondata sulla limitazione dei bisogni.
CONTROCULTURA GLOBALE.
Le sue idee si sono diffuse attraverso il mondo globalizzato,
diventando la critica radicale del nostro tempo, la controcultura del
mondialismo.
Oggi che è docente di Scienze economiche all'Università di Parigi
Sud, i giornali aperti sul bancone del locale sembrano dargli ragione:
parlano di
rifiuti nucleari e
licenziamenti, di
nazioni indebitate e speculazione internazionale.
«Sappiamo già che l'attuale sistema crollerà tra il 2030 e il 2070», spiega a Lettera43.it, «il vero esercizio di fantascienza è prevedere che cosa succederà tra cinque anni».
DOMANDA. Lei ha un'idea?
RISPOSTA. L'Europa nata nel Dopoguerra farà la fine del Sacro
romano impero di Carlo Magno che cercò di restaurare un regno crollato,
durò per 50 anni e fu travolto dai barbari.
D. Che cosa c'entra l'impero romano?
Crollò alla fine del V secolo, ma non morì: continuò a sopravvivere
per centinaia di anni con Carlo Magno, l'impero d'Oriente e poi quello
germanico. Un declino proseguito nel tempo, con disastri in successione.
Come succederà a noi.
D. È la fine della globalizzazione?
R.
Io la considero una crisi di civiltà, della civiltà occidentale. Solo
che, visto che l'Occidente è mondializzato, si tratta di crisi globale.
Ecologica, culturale e sociale insieme.
D. Più di un crollo finanziario...
R. Se vogliamo andare oltre è la crisi dell'Antropocene: l'era in cui l'uomo ha cominciato a modificare e perturbare l'ecosistema.
D. E il sogno degli Stati Uniti europei?
R. È un'illusione. Perché è solo un prodotto della globalizzazione: non hanno costruito un'Unione, ma un mercato liberista.
D. Che fine farà il Vecchio continente?
R.
L'Europa è schiacciata tra due movimenti. Uno politico e centrifugo che
si è sviluppato anche in Italia con la stessa Padania. E uno economico e
centripeto, la globalizzazione.
D. Per ora l'economia batte la politica...
R. Sì, il movimento centripeto ha il sopravvento. Ma è
anche quello che nel lungo periodo andrà a crollare. Non può funzionare
senza il petrolio e il blocco delle risorse materiali. Alla fine, con
tutta probabilità l'Europa si dividerà in macro regioni autonome.
D. Come ci arriveremo?
R. La barca affonda e andremo giù tutti insieme. Ma non è detto che questo avverrà senza violenza e dolore.
D. Parla del conflitto sociale in Grecia e Spagna?
R.
Ecco, putroppo siamo già dentro il capitalismo catastrofico. È solo
l'inizio del processo, ma vediamo già gli effetti del mix di austerità e
crescita voluto dai leader europei.
D. È comunque meglio della sola austerità...
R.
Crede che l'imperativo della crescita funzioni? Basta guardare alla
Francia: questo governo socialista vuole allo stesso tempo la prosperità
e l'austerità. Ma non riuscirà a ottenere la crescita. O, se avverrà,
sarà per pochi. Mentre l'austerità è sicura per molti.
D. Perché?
R. Perché non hanno scelta.
D. In che senso?
R.
Sono chiusi dentro questo paradigma del produttivismo, del Prodotto
interno lordo (Pil). È per questo che la decrescita è una rivoluzione.
Perché prima di tutto è un cambiamento di paradigma.
D. Facile dirlo. Ma lei che cosa farebbe se fosse il premier italiano?
R. L'Italia dovrebbe andare in bancarotta.
«Il debito italiano? Non sarà mai ripagato»
D. Che cosa intende?
R. Pensi al debito.
D. Secondo l'Fmi quello italiano è quasi al 140% del Pil.
R.
Appunto: non sarà ripagato, lo sanno tutti. Ne è consapevole anche
Mario Monti. Il problema, per l'attuale classe dirigente, non è ripagare
il debito. Ma è fingere di poter continuare il gioco: cioè ottenere
prestiti e rilanciare un'economia che è solo speculativa.
D. Quali sono le prime cinque misure che adotterebbe al posto di Monti?
R.
Innanzitutto, cancellerei il debito. Parlo come teorico, so che ci sono
cose che Monti non potrebbe fare comunque, neppure se fosse di sinistra
o un decrescente. Ma sto parlando di bancarotta dello Stato.
D. La bancarotta è la soluzione?
R. È più che altro la condizione per trovare le soluzioni.
D. In che senso?
R.
Non porta necessariamente alla soluzione, anzi in un primo momento le
cose possono peggiorare. Ma non c'è altro modo, perché non esiste via
d'uscita dentro la gabbia di ferro del sistema attuale.
L'Italia non sarebbe la prima né l'ultima. Tutti quelli che l'hanno fatto si sono sentiti meglio, da Carlo V all'Argentina.
D. Ma l'Argentina non era dentro una moneta unica.
R.
Questo significherebbe uscire dall'euro, ovviamente, dentro non si può
fare niente. Per questo dico che parlo come teorico: nemmeno i greci
hanno avuto il coraggio di abbandonare l'Unione.
D. Siamo al terzo punto allora: uscire dall'euro, cancellare il debito e poi?
R.
Rilocalizzare l'attività. C'è tutto un sistema di piccole imprese, di
saper fare diffuso, che è stato distrutto dalla concorrenza globale.
D. Sì, ma come si fa?
R. Devo usare una parola che in Italia fa sempre paura: serve una politica risolutamente protezionista.
D. Su questo, il dibattito è annoso...
R.
Esiste un cattivo protezionismo, è vero. Ma c'è anche un cattivissimo
libero scambio. Mentre esiste un buon protezionismo, ma non un buon
libero scambio.
D. Perché no?
R.
Perché la concorrenza leale sempre invocata non esiste. E non esisterà
mai. Semplicemente perché tutti i Paesi sono diversi. Come si può
competere con la Cina? È una barzelletta.
D. Parla come se facesse parte della Lega Nord.
R. Lo so, lo so. E anche come uno del Front National. Sa perché ha successo l'estrema destra?
D. Me lo dica lei...
R.
Perché non tutto quel che dicono è stupido. C'è una parte
insopportabile, ma se sono popolari - e lo saranno sempre di più - è
perché hanno capito alcune cose, hanno ragione. È questo che fa paura.
D. Quindi qual è la ricetta della decrescita?
R.
Il protezionismo ci permette di non essere competitivi per forza. Se lo
siamo in alcuni settori, bene. Ma possiamo anche sviluppare produzioni
non concorrenziali. Stimoliamo la concorrenza all'interno, ma con Paesi
che hanno altri sistemi sociali, altre norme ambientali, altri livelli
salariali, questo non è possibile. D'altra parte, è stata l'eccessiva
specializzazione a renderci così fragili.
D. Siamo alla quarta misura, quindi.
R. La tragedia attuale, per me, è soprattutto la disoccupazione.
D. E come pensa di risolverla?
R. Lavorando meno, ma lavorando tutti.
D. Una formula già sentita...
R.
Sì, ma ci dicevano anche che la concorrenza attuale ci avrebbe fatto
lavorare di più per guadagnare di più, come ha dichiarato quello
sciagurato di Nicolas Sarkozy. E invece ci fa lavorare di più e
guadagnare sempre meno: questo è sotto gli occhi di tutti.
D. Ma è una questione di denaro?
R.
No, si tratta di vivere. Dobbiamo ritrovare il tempo per dedicarci al
resto, alla vita. Questa è un'utopia, ma l'utopia concreta della
decrescita: superare il lavoro.
«La decrescita: ripartire dalla terra, eliminando le attività nocive»
D. Sì, ma come?
R. Partendo dalla
riconversione ecologica. Tornando a un'agricoltura contadina, senza
pesticidi e concimi chimici. In questo modo, la produttività per l'uomo
sarà più bassa, ma si creeranno milioni di posti di lavoro nel settore
agricolo. E questa è la quinta misura.
D. Basta l'agricoltura?
R.
Dobbiamo affrontare la fine degli idrocarburi, sviluppare le energie
rinnovabili e rinconvertire le attività parassitarie che danneggiano
l'ambiente.
D. Per esempio?
R. Le fabbriche di automobili, che oggi sono in crisi.
D. Peugeot ha annunciato 8 mila licenziamenti...
R. Bisognava aspettarselo da anni. Si sa che l'industria dell'auto non ha futuro: con lo stesso know how potrebbero essere trasformati in stabilimenti che producono sistemi di cogenerazione.
D. Parla di una globale ristrutturazione del mercato del lavoro?
R.
La quota di occupati in agricoltura potrebbe arrivare al 10%. Ci sono
industrie nocive come l'automobile, il nucleare, la grande distribuzione
che vanno ripensate. E c'è la necessità di una rinconversione
energetica. In Germania, con le energie rinnovabili hanno creato decine
di migliaia di posti di lavoro.
D. Ma sono dati contestati...
R.
Il dibattito è aperto: si dice che chiudere le centrali nucleari
francesi cancellerà 30 mila posti di lavoro ma, allo stesso tempo, prima
bisogna smantellare. E nessuno lo sa fare. Quanti posti di lavoro si
potrebbero creare allora?
D. E la grande distribuzione?
R.
Sicuramente ha effetti distruttivi per l'ambiente e alimenta un alto
tasso di spreco alimentare, pari a circa il 40% della produzione.
D. E allora?
R. Cancellarla significa essere pronti a ripensare tutto il sistema della città e soprattutto delle periferie.
D. Come?
R.
La gente ha bisogno di piccoli negozi. Di fare la spesa più spesso, con
più tempo a disposizione. Quando si comincia a cambiare un anello, come
in una catena cambia tutto.
D. E i trasporti?
R.
Dobbiamo pensare che il 99% dell'umanità ha passato la propria vita
senza allontanarsi più di 30 chilometri dal proprio luogo di nascita.
Quelli che si sono spostati di più, cioè noi, sono solo l'1%. Anche
questo è un fenomeno molto recente e la maggioranza delle persone non ne
soffrirà, poi ci saranno sempre i grandi viaggiatori alla Marco Polo.
D. Ne è certo?
R.
È stata la pubblicità a creare il turismo di massa. In ogni modo, con
la fine del petrolio, non ci sarà il traffico aereo di oggi, i trasporti
costeranno sempre di più, andranno meno veloce. Muoversi sarà sempre
più difficile.
D. E a livello fiscale?
R.
Bisognerebbe introdurre una tassazione diretta e progressiva. Che può
arrivare anche al 100%, se i redditi superano un certo livello. E poi
una tassazione sul sovraconsumo dei beni comuni. A partire dall'acqua.
«Bisogna limitare i bisogni per soddisfarli davvero»
D. Quindi meno lavoro e più agricoltura. Per ottenere cosa?
R. Un mondo di abbondanza frugale.
D. Cioè?
R. Una società capace di non creare bisogni inutili, ma di soddisfarli. E per soddisfarli, bisogna limitarli.
D. Le sembra possibile, quando gli operai cinesi si suicidano per un iPad?
R.
In una società sana non esiste questa forma di patologia
dell'insoddisfazione. Ci può essere una forma di seduzione, ma non
un'insoddisfazione permanente. Questo fenomeno è esacerbato dalla
pubblicità.
D. Cioè?
R. Ci convince che siamo insoddisfatti di ciò che abbiamo, per farci desiderare ciò che non abbiamo.
D. Vorrebbe spazzare via il marketing?
R.
Una delle prime misure della società della decrescita riguarda la
pubblicità: non si tratta di cancellarla - perché non siamo terroristi -
ma di tassarla fortemente, questo sì.
D. Con che motivazione?
R. È lo strumento di una gigantesca manipolazione, il veicolo della colonizzazione dell'immaginario.
D. E la finanza che rappresenta il 10% del Pil britannico?
R. Penso che questa crollerà da sola. Sarebbe già successo se questi sciagurati di governi non avessero salvato le banche.
D. Che cosa intende?
R.
È colossale quello che è stato fatto per le banche negli Usa: secondo
l'Ocse, 11.400 miliardi di dollari di fondi pubblici sono stati
destinati agli istituti di credito.
D. Se facciamo crollare le banche si affossa il sistema...
R. Sì, meglio così. Abbiamo bisogno che il sistema crolli.
D. E i cittadini?
R.
Dobbiamo pensare a come riorganizzare il funzionamento della società.
Ma bisogna ricordarsi che questo sistema così come lo conosciamo è
piuttosto recente.
D. Quanto?
R. Non ha più di 30-40 anni, prima era un sistema capitalista, ma non funzionava su queste basi finanziarie.
D. Che misure bisognerebbe adottare?
R.
Il primo passo, prima di rimettere in discussione l'intero sistema
bancario, è cancellare il mercato dei futures: pura speculazione. Un
economista francese, Friederic Lordon, ha anche proposto di chiudere le
Borse. E non sarebbe un'idea stupida.
D. Che cosa succede alle società che ci lavorano? E ai dipendenti?
R. La situazione attuale è talmente tragica che possiamo affrontare con serenità anche un cambiamento difficile.
D. Nella società della decrescita circola denaro?
R.
La moneta è un bene comune che favorisce lo scambio tra i cittadini. Ma
se è un bene comune non deve essere privatizzata. Le banche sono degli
enti privati. E allora dico sempre che noi vogliamo riappropriarci della
moneta.
D. Come?
R.
Magari partendo dai sistemi di scambio locali che utilizzano monete
regionali. Come ha funzionato per due o tre anni in Argentina, dopo il
crollo del peso.
D. E chi governa il commercio?
R. Diciamo che sarà necessario trovare un coordinamento tra le varie autonomie.
D. Ma nel suo modello ogni regione fa da sé?
R. Ogni Paese deve trovare la sua strada. Una volta che siamo riusciti a uscire dal mondo del pensiero unico, dell'homo oeconomicus, a una sola dimensione, allora ritroviamo la diversità. Ogni cultura ha il suo modo di concepire e realizzare la felicità.
D. Esistono già esperienze in questa direzione?
R. In Sud America sono sulla strada giusta. In Ecuador e
Bolivia, ispirandosi alla cultura india, hanno inserito nella
Costituzione il principio del bien vivìr: del buon vivere. Ma, con la crisi, la decrescita ha avuto un successo incredibile anche in Giappone
D. Come mai?
R.
I giapponesi stanno riscoprendo i valori del buddismo zen che si basa
sul principio di autolimitazione. E sono convinto che la stessa cosa
potrebbe succedere in Cina nei prossimi anni, anche attraverso il
confucianesimo.
D. La Cina però è anche la più grande fabbrica del mondo...
R.
Lì la crisi è già arrivata. La situazione cinese è bifronte: 200
milioni di abitanti hanno un livello di vita quasi occidentale e altri
700 milioni sono stati proletarizzati. Cacciati dalla terra, si
accumulano nelle periferie delle metropoli, dove c'è un tasso di suicidi
altissimo.
D. Ma l'economia continua comunque a crescere.
R.
Anche il ministro dell'Ambiente cinese ha riconosciuto che se si
dovesse sottrarre dal Pil di Pechino la quota di distruzione
dell'ambiente questo calerebbe del 12%.
«La democrazia è un'utopia: il bene comune è più importante»
D. Come immagina la transizione?
R. Può avvenire spontaneamente, dolcemente. Ma anche in un modo violento.
D. Lei sogna la democrazia diretta?
R.
Se si deve prendere la parola sul serio, ha senso solo la democrazia
diretta. Ma direi che su questo punto, recentemente, le mie idee sono
cambiate.
D. In che direzione?
R. Prima immaginavo un'organizzazione piramidale con alla base piccole democrazie locali e delegati al livello superiore.
D. E ora?
R.
Oggi penso che la democrazia sia un'utopia che ha senso come direzione.
Ma la cosa importante è che il potere, quale che sia, porti avanti una
politica che corrisponde al bene comune, alla volontà popolare, anche se
si tratta di una dittatura o di un dispotismo illuminato.
D. Si spieghi meglio.
R.
Norberto Bobbio si chiedeva quale è la differenza tra un buono e un
cattivo governo. Il primo lavora per il bene comune. Il secondo lo fa
per se stesso. Questa è la vera differenza.
D. Va bene, ma come si ottiene un buon governo?
R.
Con un contropotere forte. Un sistema è democratico - non è la
democrazia, attenzione, ma è democratico - quando il popolo ha la
possibilità di fare pressione sul governo, qualunque esso sia, in modo
da far pesare le proprie esigenze e idee.
D. Ma non sta rinnegando la democrazia?
R. L'ideale sarebbe naturalmente l'autogoverno del popolo, ma questo è un sogno che forse non arriverà mai.
D. Non pensa alla presa del potere?
R.
Gandhi l'aveva spiegato a proposito del suo Paese: «Al limite gli
inglesi possono restare a governare, ma allora devono fare una politica
che corrisponde alla volontà dell'India. Meglio avere degli inglesi
piuttosto che degli indiani corrotti». Mi sembrano parole di saggezza.
D. Sa che Silvio Berlusconi vuole tornare in politica?
R. Ah, lo so, ma lui è pazzo.